E’ nel recupero della relazionalità fisica, tipica della cultura occidentale, che si giocherà il futuro del nostro continente?
Qual è la condizione reale di una civiltà occidentale messa a dura prova non soltanto da un’estenuante crisi globale che investe l’economia, la politica e la società nel suo insieme, ma anche dalle sfide terroristiche sul terreno della contrapposizione religiosa e ideologica? Siamo davvero giunti ad un punto di svolta nel conflitto tra capitalismo in sofferenza ed emersione di nuove e imprevedibili istanze?
Per valutare le conseguenze del passaggio epocale dalla democrazia alla tecnocrazia, ben profetizzato dall’economista Jeremy Rifkin, c’è un nuovo libro che individua un’originale cartina al tornasole per affrontare questi temi: le “piazze” e il loro “stato di salute”. In sostanza, “piazze vive” offrono l’indicazione di una coscienza democratica ancora presente e fanno ben sperare per il futuro, mentre il rinchiudersi negli individualismi segna un pericoloso black-out nella pratica dei diritti e delle aspettative. Rinunciare al valore simbolico di questi luoghi, spesso ghettizzati a semplici spartitraffico, equivale, specie in Europa, a non riconoscerli quali estensione collettiva delle individualità, cioè a dimensione politica della nostra esistenza.
Emblematico, al proposito, che i giovani arabi, per le proprie rivolte di primavera, si siano ritrovati nei luoghi identitari delle proprie città. Ma anche che i francesi, in massa, abbiano affidato nei mesi scorsi proprio alla piazza la risposta collettiva agli attentati del terrorismo di matrice islamica.
“Piazze in piazza”, scritto da Giampiero Castellotti con contributi del sociologo Giuseppe De Rita e del poeta Pasquale Panella (editore SPedizioni, Roma), in trenta capitoli compie un’ampia indagine storica e politica sul rapporto di questi spazi di aggregazione, tra reale e virtuale, con l’impegno pubblico, con il potere, con la rivolta, comunque con la costante ricerca di un “interesse generale” che compensi la crisi delle individualità.
La piazza, cuore dei nostri centri abitati, è dunque il luogo pubblico per eccellenza. E’ vetrina di contenuti sociali: di segni, di funzioni, di attività, di beni. Con il concorso ora dell’estetica, ora dell’arredo, ora dell’effimero. E’ area metaforica di coesistenza: le funzioni civili, politiche, religiose, commerciali s’incontrano, s’intrecciano, si sovrappongono. E’ spazio urbano di potere e di contropotere. Rivelazione di “vuoto” e di “aperto”, esaltati dall’azione e dall’operosità umana. Incarna, quindi, una centralità storica e identitaria, materiale e simbolica: avervi rinunciato, spesso cedendo ad alternative virtuali o al proliferare dei nuovi “non luoghi” di aggregazione, quanto può incidere sull’incapacità di lettura dei nuovi fenomeni mondiali?
Il libro richiama un attualissimo discorso di Henri-Benjamin Constant, anno 1819: “Il pericolo della libertà moderna è che, assorbiti nel godimento della nostra indipendenza privata e nel perseguimento dei nostri interessi particolari, noi possiamo rinunciare troppo facilmente al nostro diritto a partecipare al potere politico. I depositari dell’autorità non mancano di esortarci a ciò. Sono tanto disposti a risparmiarci ogni sorta di pena, eccettuata quella di obbedire e di pagare. Essi ci diranno: quale è in fondo lo scopo dei vostri sforzi, il motivo dei vostri lavori, l’oggetto di tutte le vostre speranze? Non è la felicità? Ebbene lasciateci fare e ve la daremo. No, Signori, non lasciamo fare; per quanto commovente sia un così tenero interessamento, preghiamo l’autorità di restare nei suoi confini: si limiti a essere giusta, noi ci incaricheremo di essere felici”.
De Rita, nella sua prefazione, evidenzia come nella piazza convivano due importanti dimensioni, interconnesse, del nostro vivere: da una parte “una dimensione quotidiana legata alla relazionalità delle persone”; dall’altra “la piazza politica o di uso politicista”, che “rinvia alla natura delle relazioni tra le persone nelle varie fasi”. Cioè: “Non è la piazza che fa le relazioni, ma viceversa è la natura delle relazioni a fare la piazza; la stessa dimensione politica della piazza dipende da queste relazioni e dal loro senso e contenuto e non viceversa. C’è una quotidianità della piazza che presiede ai tanti usi della stessa, inclusa quella politica”.
E’ quindi nel recupero di questa relazionalità che si gioca il futuro del nostro continente?