Era vestita tutta di nero e copriva il capo con il velo Felicia Bartolotta quando si recò a Palermo per costituirsi parte civile alla prima udienza del processo a carico dei mafiosi di Cinisi accusati di avere ucciso suo figlio, Peppino Impastato. Sembrava una di quelle figure oleografica, la donna della tradizione, legata alle usanze più ataviche e arretrate della sua terra; quasi un bozzetto di quella Sicilia irredimibile e rassegnata, che tanto comodo fa a chi non ha voglia di sporcarsi le mani e la lascia com’è. Felicia era nata a Cinisi nel 1915; attraversò due guerre mondiali senza spostarsi dal suo paese, dove vide un’altra guerra: quella dei mafiosi che si ammazzavano tra loro. Nel suo dialetto li chiamava “gli abusivi”, quelli che facevano le prepotenze. E quando parlava dei mafiosi conosciuti da ragazzina, diceva che erano “come questi di ora” e che “la mafia ha sempre rotto le scatole ai cristiani”. Nel 1947 sposò per amore Luigi Impastato, un “uomo d’onore”, cognato di un importante capomafia del paese Cesare Manzella. Imparentatasi con gli “abusivi”, restò se stessa. Non stava con Luigi perchè era “uomo d’onore” e nemmeno lo temeva. Quando scoprì che l’aveva tradita con un’altra donna non esitò un momento a cacciarlo di casa e a restare sola con un figlio piccolo. Si riconciliò con il marito perchè fu convinta da suo fratello e perchè preferì mantenere unita la famiglia. “Però”, diceva, “il sangue restò sporco, lo stomaco restò malato”. Giuseppe era il primogenito e quando cominciò a crescere, nella casa di Felicia iniziò l’inferno. Peppino era “sangue pazzo”; si rese conto che viveva in mezzo alla mafia ma si rese pure conto di cos’era la mafia. In realtà non avrebbe dovuto essere particolarmente difficile per nessuno: come lui tutti avevano visto le azioni più sanguinarie dei mafiosi, fino all’autobomba che fece saltare in aria il boss Cesare Manzella, che era anche suo zio. Eppure non era facile pensare, dire, opporsi alla mafia a Cinisi. Peppino non poteva farlo nelle case, nelle sedi delle istituzioni locali, nelle chiese o negli oratori, perchè lì di mafia nessuno voleva parlare. L’unica strada era fare il rivoluzionario, il comunista, il militante di estrema sinistra. E il padre non poteva sopportarlo. A un certo punto gli fece una concessione, ma gli chiese una contropartita: “Fai il comunista, però non rompere l’anima con la mafia”. Peppino non ubbidì e andò a vivere da una zia. Ma Felicia lo faceva tornare di nascosto. Una volta mentre il marito stava mandando via Peppino urlando per strada, Felicia lo aggredì, lo afferrò per la camicia fino a staccargli tutti i bottoni e lo rimproverò: “Trasi intra e non ti mittiri a abbanniari cu tò figghiu”. Quando glielo assassinarono quel figlio, Felicia, che già era vedova, ruppe ogni rapporto con i suoi parenti mafiosi; disse loro che vendette non ne voleva e chiese giustizia allo Stato. Si battè senza stancarsi mai con i suoi capelli bianchi e con lo scialle nero, parlando in dialetto o in un incerto italiano, rimanendo legata al suo ambiente e stando in una casa di paese. E ha vinto la sua battaglia. Ha dimostrato che si può resistere, anche quando la mafia è tutto attorno e persino dentro di noi. Lo ha fatto da donna siciliana d’altri tempi, permeata di quella stessa cultura che si dice essere l’humus della mentalità mafiosa. Lo ha fatto rischiando, soffrendo: non a chiacchiere. Ha compiuto una rivoluzione che al figlio non avevano consentito di fare: mostrare una Sicilia che sa di potere essere simile alla mafia ma che riesce a cacciarla fuori di casa sua. E’ morta nel suo letto nel 2004: nessuno ebbe il coraggio di farle del male.
Fonte: ilfattonisseno.it